martedì 14 aprile 2009

A lezione di tattica con Marco Giampaolo

In data martedì 9 dicembre 2008 è stata pubblicata una intervista lunghissima al nostro Mister Marco Giampaolo sul blog http://fangoenuvole.blogspot.com/search?q=marco+giampaolo.
L'abbiamo letta di recente e riteniamo di fare cosa gradita a chi non l'avesse ancora fatto perchè, seppur molto lunga, mostra in tutte le sue sfaccettature com'è l'allenatore Marco Giampaolo, in cosa crede e quali sono le sue idee calcistiche.
Lavagna, televisore, computer e un immancabile toscano in bocca. È così che Marco Giampaolo, uno degli allenatori più giovani e preparati della serie A, parla di calcio, dei suoi progetti, delle sue idee e della rivoluzione del ruolo di allenatore. Un uomo che crede nel lavoro e nell’impegno quotidiano per il raggiungimento dell’obiettivo e che è arrivato ai massimi livelli grazie al calcio proposto, dal 4-4-2 di Ascoli all’attuale 4-3-1-2 di Siena. Un tecnico che come pochi altri ama insegnare calcio.
Che allenatore è Marco Giampolo?
«Gli allenatori si dividono in più categorie. Ci sono quelli che cercano d’insegnare qualcosa e quelli che gestiscono, anche la gestione è una cosa difficile. Ci sono club nei quali si deve gestire, altri in cui si deve allenare, in altri ancora bisogna mediare. Non tutte le società sono uguali e nemmeno tutti i giocatori. Per estrazione e caratteristiche io sono un allenatore al quale piace costruire un progetto, però il mestiere non è solo questo, non si limita solamente al saper allenare. Un tecnico deve saper fare il suo lavoro, ovvio, ma deve sapere anche gestire, comunicare, tenere i rapporti con i tifosi, con la città, rappresentando nel ruolo che ricopre sia la società che il luogo in cui questa opera. Io sono un allenatore al quale piace lavorare su un progetto, curando tutti questi aspetti».
Quando giocava pensava che avrebbe allenato?
«Quando giocavo sognavo di allenare. Prima ho sognato di fare il calciatore, anche se calciatore per me è una parola grossa, in C si rischia di arrivare a fine carriera senza arte ne parte. Allenare era un sogno, ma sperare non significa niente, era un’idea lontana, che poi si è concretizzata».
Quali sono le caratteristiche che differenziano un buon allenatore da uno cattivo?
«Chi arriva ai massimi livelli ha dei requisiti e delle capacità. Non c’è quello più bravo e quello meno bravo, semmai c’è quello più adatto ad allenare l’Inter e quello più adatto ad allenare il Siena, per fare un paragone calzante. Un allenatore si può definire tale se compie una carriera più o meno lunga e a certi livelli, altrimenti rischia di essere solo una meteora. La continuità è importante, poi per dare un giudizio complessivo bisogna andare a vedere in quali piazze ha allenato e che giocatori ha avuto a disposizione, perché anche le opportunità dicono che allenatore sei stato e sei. Ovviamente allenare a Milano è diverso rispetto a Siena, così come a Napoli o a Roma».
Ma un allenatore lo sa qual è la piazza o la squadra più adatta alle sue caratteristiche?
«No, perché poi l’ambizione eccede. Io, per fare un esempio, credo che un allenatore che si siede sulla panchina dell’Inter debba avere essenzialmente due qualità: la capacità di gestire e la capacità di comunicare. Essere un grandissimo allenatore, un insegnante di calcio, tanto per intenderci, non è necessario. Devi essere un buon tecnico, ma non necessariamente un didatta, un fine conoscitore degli aspetti tattici. Perché? Perché manca il presupposto, i campioni poi sono un valore aggiunto. In una piccola squadra invece la caratteristica prima deve essere quella di allenare, poi quella di gestire, infine di comunicare, anche perché la risonanza è completamente diversa».
I pregi e i difetti che si riconosce come allenatore…
«Pregi, non saprei. Difetti? Non so se lo è. Oggi, secondo me chi fa questo lavoro deve avere la capacità di staccare la spina, perché questo è un mestiere che ti prende anche di notte, quando dormi, allora si deve avere la capacità di non pensare sempre al calcio affinché si possa essere lucidi, riposati e sereni. Non godo della vittoria perché penso sempre alla prossima partita e ragiono sulla sconfitta, sono uno stacanovista, ma riesco anche a estraniarmi per ricaricare le batterie».
Gli uomini secondo il modulo o il modulo secondo degli uomini?
«Non si può prescindere dagli uomini e quindi dal metterli nella condizione di poter far bene. Anche se ogni allenatore ha le sue preferenze e il modulo che predilige, però non si possono mettere le proprie idee davanti alla prestazione del calciatore. Le proprie idee sono buone e restano buone, ma devono essere adattate ai giocatori a disposizione».
Difesa a tre o a quattro e perché?
«La difesa a quattro la preferisco perché in ampiezza si copre meglio il campo. La difesa a tre non resta mai tale perché spesso recluta un quarto se non un quinto uomo e non so se poi è veramente una difesa a tre. Se io porto cinque uomini dietro può anche essere più conveniente, ma credo che la difesa a tre sia meglio nella costruzione del gioco, lo scaglionamento dei giocatori in campo ti permette di avere più soluzioni di uscita e linee di passaggio ed essere meno piatti rispetto alla difesa a quattro».
Alcuni affermano che tutte le grandi squadre, ieri come oggi, pongono le loro basi su una perfetta fase difensiva, è d’accordo?
«Statisticamente le squadre che subiscono meno gol sono poi quelle che arrivano, statisticamente. Quando si parla di fase difensiva non si deve mai pensare solo ai difensori, poiché è un lavoro d’insieme che va incastonato in un discorso più ampio. Io credo che una squadra capace di fare un non possesso organico abbia un valore aggiunto, perché per me è il risultato di un collettivo e non delle qualità individuali, come per esempio nell’uno contro uno».
Quali sono le maggiori differenze tra il 4-3-1-2 e il 4-3-2-1?
«In fase di non possesso palla, nel 4-3-1-2, hai delle zone intermedie del campo, soprattutto in quella dei centrali avversari, dove tu non riesci mai ad accorciare sul portatore di palla, perché se stringi con i due attaccanti lasci spazio in ampiezza, se li tieni larghi lasci spazio all’interno, costringendoti ad abbassare il baricentro del gioco. Nel 4-3-1-2, con i due attaccanti sull’esterno riesci ad accorciare meglio sul portatore di palla avversario. In fase di possesso, con il 4-3-2-1, si ha più giocatori tra le linee e maggiori capacità di attaccare la profondità in velocità, mentre nel 4-3-1-2 hai più difficoltà ad attaccare la profondità e nel ripartire».
Qual è il modulo che le ha dato maggiore soddisfazione, 4-4-2 come ad Ascoli, 4-3-3 come a Cagliari o il 4-3-1-2 di Siena?
«Il 4-4-2, il 4-3-3, il 4-3-1-2, i sistemi di gioco maggiormente adottati in questi ultimi anni, non dicono niente se li consideriamo solo dei numeri. Io più che di modulo parlerei delle caratteristiche dei giocatori all’interno di un sistema di gioco. Il 4-4-2 può essere più offensivo, difensivo, fantasioso o fisico secondo i giocatori impiegati. Questo modulo, rispetto a quindici anni fa, ha subito una forte evoluzione. Prima gli esterni erano dei mediani prestati al ruolo, poi si sono rispolverate le ali vecchio stampo capaci di saltare l’uomo, più avanti difensori laterali con qualità tecniche maggiormente fluidificanti. Da modulo molto difensivo, quindi, capace di coprire bene tutte le zone del campo siamo passati a un modulo che potremmo definire 4-2-4. Oggi la geografia del campionato non prevede più il 4-4-2, se si escludono la Juventus, un po’ l’Atalanta che gioca con un 4-4-1-1 e la Roma che poi ha cambiato. La differenza è data dal fatto che si è persa fantasia e si è acquisita forza. Giocano quasi tutti con tre centrocampisti centrali e il rombo o con cinque centrocampisti, non ci sono più ali e cambiando le caratteristiche dei giocatori anche i moduli ne risentono. L’Inter, per esempio, ha dovuto prendere Mancini e Quaresma, Camoranesi in Nazionale è l’ultimo dei Moicani. Forse anche Marchionni alla Juventus. Il modulo che mi ha dato più soddisfazione è senza dubbio il 4-4-2 di Ascoli con degli esterni che avevano grandi qualità tecniche e i difensori capaci di sovrapporsi, anche se forse era più simile a un 4-2-4, ma credo che oggi non sia più proponibile. L’unica squadra che ha giocato questo calcio, di grande qualità, è stato il Portogallo agli ultimi Europei, calcio straordinario, ma il 4-4-2 in serie A, in questo momento, è morto e paga poco».
Come si trasmette un’idea di gioco a un gruppo?
«Innanzi tutto l’allenatore deve avere le idee chiare su dove deve arrivare. Una linea di traguardo, oltre la quale c’è la cura del dettaglio, che non finisce mai. Per fare questo occorre tantissimo lavoro e una didattica che non trascuri i dettagli, dalla lavagna al computer, dal televisore alla postura, piccoli ma che possono rivelarsi fondamentali per vincere una partita. Un traguardo del genere, per essere raggiunto, ha bisogno di tanto tempo e di tanto lavoro, ha bisogno della disponibilità dei giocatori, della tutela della società e chiaramente di buoni interpreti».
Lei s’ispira a qualche allenatore? E qual è quello che le ha insegnato di più?
«Io sono cresciuto come calciatore con Giuliano Sonzogni che era un seguace di Arrigo Sacchi ed è stato il primo allenatore che mi ha insegnato qualcosa di diverso rispetto agli altri. Successivamente ho avuto la fortuna di collaborare con Delio Rossi al Pescara, che allora era emulo di Zeman, un altro calcio, infine con Galeone, che è il prodotto di un calcio più spagnolo, capace di unire la qualità alla ricerca del risultato. Tre filosofie diverse, la quarta è quella italiana della marcatura a uomo, che io non ho mai preso in considerazione. Quindi sono cresciuto con quelle tre identità diverse nelle quali mi rispecchiavo: una squadra organizzata in fase di non possesso palla; una squadra con idee in fase d’attacco; una squadra che avesse un’estetica di gioco, che si facesse apprezzare per quello. La sintesi è questa, ho preso qualcosa da tutti e tre, ho portato avanti le mie idee, i miei studi, ho visionato allenatori come Del Neri, che credo sia un maestro in questo senso, Prandelli, Spalletti, negli anni, e ho fatto le mie esperienze personali, attraverso le partite e gli allenamenti, maturando un’idea di calcio che abbracciasse organizzazione, idee in fase offensiva e spettacolo».
Ancelotti ha detto che un allenatore per fare bene il suo lavoro non deve stare né sopra né sotto, ma dentro la squadra, concorda?
«Io credo che un tecnico debba essere autorevole, né autoritario né troppo democratico. L’autorevolezza è il riscontro che viene da un gruppo, mai dal singolo, l’individuo non riconosce con giustezza le decisioni il gruppo sì. Autorevolezza che deriva dal carisma, dalle capacità professionali, dalla gestione delle situazioni, dall’essere al di sopra di ogni sospetto, soprattutto quando c’è da prendere delle decisioni forti per il gruppo, ipoteticamente anche a discapito del risultato, dalla capacità di allenare e dalle idee che si mettono in pratica. L’improvvisazione toglie sempre qualcosa al riconoscimento del tuo lavoro. Una buona gestione ti può salvaguardare anche dall’improvvisazione, ma credo che il top sia la miscela delle caratteristiche enunciate».
Come si gestisce psicologicamente la settimana dopo una sconfitta e dopo una vittoria?
«Non giudico mai la prestazione della squadra solo ed esclusivamente dal risultato, perché sarebbe riduttivo. Noi, io e il mio staff, ci soffermiamo molto sulla prestazione, sullo sviluppo delle idee, di un lavoro che porti avanti da mesi. La sconfitta può dipendere da tante cose, ma l’atteggiamento, la prestazione, come ci si è posti davanti alla partita sono più importanti ed è su questo che lavoriamo. Se lavorassimo solo sul risultato non ci porterebbe da nessuna parte. Ovviamente il gruppo ne risente, ma da metà luglio si lavora su un progetto che se si basasse solo sul risultato perderebbe credibilità».
Lei ha fatto giocare un esterno destro sulla sinistra e un esterno sinistro sulla destra per creare cambi repentini di gioco in fase di possesso palla, com’è riuscito a convincere i giocatori e creare una cosa semplice ma completamente nuova?
«Ci sono giocatori che amano la linea come compagno di viaggio, che se non sentono la linea si perdono. Un aspetto psicologico e posturale insieme. Ci sono, invece, giocatori di fascia con meno profondità meno corsa e più qualità tecniche, maggiori capacità di dribblare, che sanno giocare anche dentro il campo. Un giocatore che gioca faccia alla porta ha 180° di visuale, il giocatore in fascia 90°, quello che va dritto meno di 90°. Il giocatore che gioca a piedi invertiti in fascia li ha tutti e 90°, ma non puoi chiedere a un giocatore di profondità di giocare a piede invertito, perché non è capace. Per fare questo ci vogliono giocatori dalle grandi qualità tecniche, una via di mezzo tra un’ala a un fantasista vecchio stampo. Foggia era più attaccante ma si abituò subito a quel ruolo anche perché usufruiva delle sovrapposizioni del terzino che lo liberava dal primo uomo, quindi la sovrapposizione consentiva a Foggia di giocare uno contro uno o addirittura di liberarsi al tiro. Ma tutto questo non può prescindere dalle qualità tecniche dei giocatori, la mortalità, inoltre, deve essere pari a zero, perché se io perdo palla in questa fase di gioco o quattro-cinque giocatori sopra la linea di palla e rischio di subire le transizioni negative, le ripartenze. Con Langella ed Esposito, a Cagliari, per esempio, non si poteva fare perché sono due giocatori di profondità. Questa inversione la si può fare in B, come Conte a Bari e Ventura a Pisa, ma in A non ha lo stesso successo, non paga».
Come gestisce un allenatore di A i rapporti con la società?
«Un allenatore viene giudicato sempre, tutti i giorni, non solo per quello che fai sul campo, ma anche dal comportamento, dalle conferenze stampa, da quello che viene fuori, dall’educazione e dal rispetto. Per me vale sempre la regola più importante, cioè essere professionali e professionisti nel proprio lavoro».
Con i giornalisti?
«Con i giornalisti intrattengo un rapporto professionale. Non sono uno che bluffa, non dico mai una cosa per depistare. Mi è capitato d’interagire con giornalisti che volevano capire qualcosa in più, il calcio che proponevo, entrando nello specifico. Mi è capitato d’interagire con giornalisti che facevano soltanto l’articolo perché lavoravano come all’ufficio postale, senza andare a vedere se c’era un progetto di lavoro. Le categorie sono queste, però il mio rapporto è paritetico con tutti, non ho mai privilegiato nessuno, pur nutrendo simpatie per quelli che reputo maggiormente competenti, e questo qualche volta mi è costato perché ci sono piazze dove c’è il giornalista che raccoglie i consensi di tutti, che sa sempre la cosa prima degli altri e che è abituato ad avere la prima notizia, di fronte a queste situazioni io ho rispettato tutti, senza mai fare il furbo e il ruffiano perché credo, che pur rimettendoci, alla lunga certi atteggiamenti non paghino».
Pensa che i giornalisti italiani siano preparati sotto l’aspetto tattico?
«Poco».
Herrera ha inventato il mestiere di allenatore, dopo il rifiuto a Cellino lei crede di averlo reinventato?
«No. Il mio rifiuto sottintendeva la credibilità della figura dell’allenatore, in quanto responsabile del progetto tecnico, come punto di riferimento della squadra e delle sue sorti, anche perché è il responsabile della gestione e una cattiva gestione può far saltare in aria un gruppo, anche se ci sono giocatori importanti. Se alla figura dell’allenatore si riconoscono queste caratteristiche non deve essere destabilizzata. Il mio sogno è l’allenatore-manager all’inglese. I giocatori li scelgo io, li prendo io e rispondono solo a me, non a qualcosa che c’è sopra di me, perché il bypassare crea sempre delle difficoltà. Il sistema così com’è va rivisto perché crea enormi difficoltà ai tecnici. Dovrei essere io a portare il Direttore sportivo e non viceversa. Non sono tornato a Cagliari perché tutti questi presupposti erano venuti meno. Essere esonerato e poi richiamato era, secondo i miei parametri, illogico. Da chi è stata fatta e come la valutazione sull’allenatore? Si prende e si lascia a seconda dei momenti e degli umori, questo è frutto d’improvvisazione e io dentro questo sistema non mi riconosco, anche perché gli altri si possono approfittare di queste situazioni. Oggi l’allenatore è in mano a tutti e a tanti, ci vuole una rivoluzione sostanziale: i presidenti devono affidarsi agli allenatori».
Giampaolo viene dalla gavetta, come tanti colleghi preparati, le da fastidio vedere qualche giocatore famoso che non l’ha fatta, scarseggiando anche in preparazione e formazione?
«Non mi da fastidio perché una società che investe tanti soldi ha il diritto di scegliere chi vuole. La responsabilità è delle società e non degli allenatori, che sono l’anello debole della catena, dovremmo essere più solidali. Io contesto il principio, perché non è giusto che chi non ha avuto una carriera importante da calciatore non possa scalare i campionati e diventare un allenatore di serie A, come stava per accadere a me. Questo meriterebbe una battaglia da parte della categoria, ma nel contempo trovo ingiusto criticare o penalizzare chi arriva senza esperienza, sembra quasi il colpo di reni di chi a certi livelli non è mai stato chiamato. Io non devo propormi, io devo essere chiamato per il riconoscimento delle mie qualità».
Si dice che in provincia si giochi meglio a calcio perché c’è più tempo per insegnare e imparare?
«Oggi s’insegna poco e si curano poco gli aspetti didattici perché il risultato è come una carabina puntata addosso, quindi non perdi tempo nemmeno a proporre un progetto. Per questo in Italia non si gioca un bel calcio. Se uno vuole insegnare lo può fare ancora nei settori giovanili o nei dilettanti. È la mentalità che deve essere cambiata, contro gli interessi che spostano la prospettiva. Per quanto mi riguarda un allenatore deve costruire, deve creare e proporre un certo tipo di calcio, perché è la cifra personale e una soddisfazione. Io non sono capace a prendere scorciatoie. Io non sono capace di condurre una squadra e dire “giocate e vediamo cosa viene fuori” se prima non programmo una didattica e non porto il giocatore a pensare in un certo modo attraverso degli step di lavoro. Rappresentiamo quello che siamo. A me piace che la squadra giochi un calcio discreto e che gli venga riconosciuto, altrimenti per me è una sconfitta. L’improvvisazione è una sconfitta, non proporre niente è una sconfitta».
Durante un allenamento il tecnico cosa si prefigge e come lo ottiene?
«Prima si fissa l’obiettivo e poi si propongono degli esercizi attraverso i quali raggiungerlo».
Un allenatore sa quando la propria squadra ha lavorato bene oppure lo vede solo durante la partita?
«No, lo sa prima. Mi permetto questa piccola presunzione: so quando la mia squadra è in grado o non è in grado di fare una prestazione all’altezza della situazione, lo vedo dallo svolgimento del lavoro settimanale. Se non tocchiamo i principi su cui abbiamo basato il nostro lavoro viene a mancare qualcosa, come se tu non avessi dato da mangiare quotidianamente a una persona. Se il lavoro si sviluppa in modo disordinato nove su dieci non becchiamo nemmeno la prestazione».
C’è sempre un giocatore che in campo fa le veci dell’allenatore?
«Credo che i giocatori debbano rappresentare le idee del tecnico, poi c’è quello più esperto, che ha capito ed è in grado di assolvere il compito assegnatogli dal punto di vista dell’atteggiamento, non sempre e solo dal punto di vista tecnico, ma dall’interpretazione e quelli sono i giocatori importanti, le motrici, che creano la strada per gli altri, che creano il presupposto anche per il miglioramento di quelli che arrivano e non hanno la stessa cultura».
Il ritiro durante il campionato, dopo una sconfitta, serve?
«Non ci credo, perché quando si arriva al punto di organizzare il ritiro nel post partita è perché ci sono atteggiamenti che non vanno bene. Ci possono essere squadre in crisi di risultati ma non d’identità e squadre in crisi di risultati e identità, ma in questo secondo caso è il momento di cambiare l’allenatore, perciò il ritiro è solo un palliativo, è un volersi mettere al riparo. Oggi bisogna assumersi delle responsabilità».
Chi è
Marco Giampaolo, origini abruzzesi, è nato in Svizzera, a Bellinzona, il 2 agosto del ’67. Da giocatore a militato nel Giulianova, Gubbio, Licata, Siracusa, Fidelis Andria e Gualdo. Nel 2000 a Pescara inizia ad allenare. Siederà sulle panchine di Giulianova e Treviso prima di sbarcare ad Ascoli dove si consacra come uno dei giovani emergenti, per le sue idee e per il gioco della propria squadra. Nel 2006 è a Cagliari dove, oltre al gioco e ai risultati, rimane storico il suo rifiuto a Cellino che lo richiama dopo averlo esonerato: «Pur nella consapevolezza del danno economico che ne deriverà, rinuncio a tornare a Cagliari. L’orgoglio e la dignità non hanno prezzo», dirà Giampaolo passando alla storia come l’unico allenatore ad aver rifiutato di tornare in panchina. Dall’estate del 2008 siede sulla panchina del Siena con buoni risultati, a consigliarlo alla società per le sue qualità, si dice, sia stato, l’ex tecnico Beretta oggi a Lecce. L’Abruzzo l’ha premiato con il prestigioso premio “Rocky Marciano”, quale sportivo abruzzese dell’anno con questa motivazione: «Allenatore serio e preparato, che ha contribuito con la propria strategia alle promozioni di importanti società calcistiche, come Treviso e Ascoli, e che è ormai nel panorama calcistico nazionale uno dei punti di riferimento per stile e tecnica, ha dimostrato in più occasioni come la dignità personale non possa essere mai barattata nemmeno con il contratto più proficuo». Senza parole…
Settimana tipo
In una settimana si cerca di lavorare su tutte le qualità dei giocatori. Anche se nel calcio poi si opera con l’attrezzo, il pallone, e noi stiamo cercando di privilegiare il lavoro con palla piuttosto che quello a secco, per avere un risultato condizionale simile. Il martedì la seduta è dedicata agli aspetti tecnici, con partite a tema per lo sviluppo della potenza aerobica. Il mercoledì, al mattino lavoriamo sulla forza degli arti inferiori con momenti di esercitazioni tattiche in riferimento alla fase di non possesso, nel pomeriggio facciamo partite ad alta intensità che ci permettono di raggiungere picchi di lavoro alti, sempre con palla. Il giovedì a volte c’è la partita infrasettimanale, altre curiamo la tattica. Il venerdì è una seduta leggera nella quale curiamo la fase del possesso palla e dell’attacco, lo sviluppo delle situazioni di gioco in base alla squadra che affronteremo la domenica, o esercizi di palla inattiva a favore o sfavore, che alterniamo con il sabato. Sempre il venerdì lavoriamo anche sulla forza esplosiva per reclutare fibre veloci. Il sabato facciamo una rifinitura svelta, rapida, reattiva anche dal punto di vista mentale con esercitazioni di palla inattiva.
Psicologia
L’aspetto psicologico a Siena è curato dal dottor Zerbini, un grande professionista, per me figura nuova. Personalmente sono stato sempre contrario a queste figure, perché l’aspetto psicologico lo dovrebbe sempre curare l’allenatore, ma inteso così com’è inteso a Siena rappresenta, anche per me, un valore aggiunto per la squadra. Alla fine, però, l’aspetto psicologico è sempre patrimonio dell’allenatore, perché dipende da quello che riesci a trasmettere al giocatore in termini di lavoro e di gestione delle situazioni, sempre. Diciamo che il mio è più un approccio di gruppo, il dottor Zerbini invece ha un approccio individuale che si compenetrano.
Alimentazione
Il Siena, nello specifico, ha uno staff medico di altissimo livello, invidiato in Italia. Staff che si avvale di un nutrizionista, i ragazzi fanno degli esami che permettono di correggere e controllare l’alimentazione. Quello che fanno a casa non lo sappiamo, ma dentro gli orari di allenamento sono seguiti nei minimi particolari.
Infortuni
Lo staff medico è fondamentale, perché dalle qualità di questo dipende anche la tempistica dei recuperi e qui a Siena ho visto risultati straordinari. Per la mia esperienza, i problemi muscolari, soprattutto ai gemelli, sono quelli più ricorrenti, più difficili da guarire e più lunghi da risolvere.

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